Archivio documenti ed attività per la
Catechesi per adulti e

per il Corso com-unitario di base

 

CATECHESI PER GLI ADULTI

 

Schema dell’incontro del 4 ottobre

 
APPROFONDIMENTO DEL VANGELO DI LUCA (cap. 1,1-38)

 

Queste proposte di riflessione sono tratte dal testo di P. Silvano Fausti, “Ricorda e racconta il Vangelo”, Ed. Ancora; e presenti anche sul Sito: “www.gesuiti-villapizzone.it”

 

Luca è l’unico evangelista che afferma esplicitamente di non aver visto gli avvenimenti di cui parla. E’ come noi, ci precede e ci guida in questo cammino. Racconta fatti (sia di Gesù, nel Vangelo, sia degli Apostoli, negli Atti), e poiché, secondo la tradizione, è medico nella prima parte del Vangelo presenta una “logoterapia”, perché la Parola di Gesù ci cura.  Si dice poi che Luca è pittore: la seconda parte del Vangelo è lo schizzo di alcuni fatti di Gesù, che emergono nella loro profondità.  Luca fa parte della terza generazione cristiana (la prima ha visto, la seconda è vicina, ed attende un ritorno prossimo; la terza invece deve vivere la quotidianità, e capire come Gesù la illumina).

Luca ha circa 1100 versetti, di cui 650 sono propri (non in comune con gli altri Evangelisti). Quest’anno vediamo questi versetti.

1-4: prologo.   Luca afferma nel prologo che riporta solo testimonianze di testimoni oculari. Scrive a tutta la Chiesa, rappresentata da Teofilo.  E racconta fatti, non idee. Questi fatti stessi sono la “Buona notizia”; la Parola realizza oggi quello che significa. Luca ci consegna la Sua stessa esperienza, e quella dei testimoni oculari che ha studiato, perciò si considera “servo della parola”, non padrone. E la ricerca con cura (non con superficialità) e con totalità (non solo una parte).

5-25: compimento della promessa nella nascita di Giovanni il Battista.  È il clima di fede del popolo di Israele, i primi due capitoli sono infatti un intreccio tra Antico e Nuovo Testamento. Il brano inizia con sei nomi propri, che indicano la concretezza della storia in persone reali, perché la storia della salvezza è inserita nella storia umana. Anche Erode collabora alla storia della salvezza: è negativo, ma contribuisce, perché Dio si serve della realtà, senza manipolarla, ma rendendola così com’è “storia della salvezza”.  Secondo nome è Zaccaria, che vuol dire “Dio si ricorda”, perché guida sempre la storia, anche se a noi non sempre sembra. E’ della classe di Abia (= Dio è Padre). Sua moglie Elisabetta significa invece “Dio ha giurato” (mantiene perciò la sua promessa). La realtà di inizio è negativa: la sterilità. Sono giusti, ma non hanno figli: la giustizia non è garanzia di “fortuna” nella vita. La promessa di Dio è vita, ma vista come dono, non come diritto (questa è la prima tentazione dell’Eden). La promessa vera passa attraverso la sterilità, perché mi fa capire che quello che ho è dono, non merito mio. La storia di Israele inizia infatti con tante matriarche sterili.

C’è poi il tema del Tempio, luogo del sacro, staccato dal profano. Ricorda che al centro della vita dell’uomo deve esserci Dio: a noi scegliere se vogliamo mettere il Dio della vita, o il dio del male (me stesso, denaro, potere, divertimento…).

L’angelo è colui che annuncia la promessa di Dio, perché tutta la nostra vita è attuazione di questa promessa. Si manifesta nella natura, nella storia, e soprattutto nella Rivelazione.

Davanti alla Parola noi proviamo timore. È naturale, perché se ascolto l’altro ascolto qualcosa di nuovo; se l’altro è Dio, il turbamento è ancora più grande, perché Lui mette in gioco tutta la mia vita.  Il “timor di Dio” è considerarlo come Dio, è perciò un principio spirituale giusto; non invece la “paura” di Dio, perché è “non considerarlo Padre”.

La promessa per Zaccaria è “il figlio”, non uno qualunque.  E’ Giovanni, cioè “grazia di Dio”.  E’ relazione, dono… Tipico di Luca è il tema della gioia, perché tutto è dono.  Giovanni è grande davanti a Dio (la vera grandezza non è quella che vedono gli altri, ma quella che vede Dio); è “nazireo”, come altri grandi Padri di Israele, che lui riassume; è colui che fa tornare il popolo a Dio, cioè che predicherà la conversione davanti al Messia, compimento di tutta la promessa.

Il segno della mutezza fa vedere che se non so accogliere la Parola, non ho nulla da dire: se non ho nulla da dire, è meglio tacere.

26-38: annunciazione, compimento della promessa. È il brano più conosciuto. Si ripete un’Annunciazione, non più nel Tempio, ma in una donna, che diventa Tempio di Dio. La figura di Maria è immagine di ognuno di noi, persona con cui Dio vuole interagire, e che Gli risponde “eccomi”. Vedendolo dal punto di vista di Dio, vediamo che il Suo sogno eterno si attua. Maria è nostra Madre (della Chiesa), dunque è nostro modello, prototipo del discepolo, che ascolta e dice di sì. Serve da introduzione a tutto il Vangelo, perché è lo schema di tutti i brani. Si danno le coordinate di tempo (6° mese) e di luogo (Nazaret). Il 6° mese è segno di un non compimento (Giovanni Battista è segno dell’Antico Testamento, non ancora completo). La promessa di Dio si attua anche nel non completamento, perché è Lui che fa il completamento (la Sua promessa si copie ora, dunque non dobbiamo cercare un momento propizio, ma accogliere sempre la Parola). Nazaret è il luogo della vita quotidiana (non nel Tempio, luogo dello straordinario). La Parola potente di Dio si rivolge ad una Vergine (prima era una coppia sterile), segno dell’accoglienza completa. La proposta di Dio è “gioisci”, che è un comando perché è tutto il desiderio di Dio per noi. Maria è “piena di grazia”, questa è la vera identità di Maria, l’identità di colei che è amata in modo infinito. Dio è “con te”, dunque Dio è relazione, e tutto il Vangelo mi insegnerà a capire questa relazione. Maria è turbata, perché ogni cosa nuova sconvolge, e ci si chiede il significato esatto. La risposta è “non temere” frase presente molte volte nella Parola di Dio, con la motivazione: perché Dio è con te. Dio si mette nelle nostre mani (nelle mani di Maria c’è in senso pieno il Figlio steso del Padre). Gesù è presentato come Messia, con caratteristiche opposte a quelle dell’idolo, perché l’uomo cerca un Messia che comandi in modo assoluto; invece Gesù è presentato come Messia umile, mite, non arrogante. Maria chiede, si informa, perché umanamente ci si chiede sempre: “Come?”. Dio risponde: “Non devi fare nulla, faccio io”. Lo Spirito Santo è dono della Parola di Dio, che ci apre alla vita di Dio in noi. Maria risponde con una parola da capire: “schiava”. È lo stesso termine che usa Paolo quando ci parla della libertà come “farci schiavi l’uno dell’altro nell’amore”, perché la libertà è appartenere all’amore, cioè all’altro. Il sì di Maria è modello del sì che ogni persona è chiamata a dire a Dio.

 

Schema dell’incontro del 18 ottobre

 
APPROFONDIMENTO DEL VANGELO DI LUCA (cap. 1,39-80)

È un brano che intreccia Antico Testamento (promessa), Nuovo Testamento (attuazione nella storia) e Chiesa (attuazione nel presente).

39-45: Maria parte in fretta, la fretta dell’amore, che non è ansia. Va a vedere il segno di ciò che è avvenuto in lei (il Nuovo Testamento è indicato dall’Antico). Maria porta la pace (Shalom, saluto ebraico) a Elisabetta, perché porta Gesù. Giovanni danza di gioia nell’incontro con Gesù, perché l’uomo quando incontra Dio non può non danzare. Anche Elisabetta è piena di Spirito, perché abbracciando Maria abbraccia Gesù. Le dice “grande fra le donne” perché è la perfezione dell’umanità, che schiaccia la testa del Nemico. E riconosce il segno avvenuto in lei: il bambino che danza nel suo grembo; sa discernere la visita del Signore. La prima beatitudine del Vangelo di Luca è questa: credere con fiducia nella Parola di Dio.

46-56: (1 Sam. 2,1-10) L’incontro tra l’attesa e l’atteso, fa scoccare la scintilla della gioia, manifestata in questa preghiera. Il “Magnificat” è un canto di gioia che abbraccia il senso di tutta la storia. È un canto di lode, cioè di umiltà, perché gioisce della grandezza di Dio, e non della propria; senza invidia, senza fastidio, ma solo con gioia. La lode è la prima espressione dell’amore. Maria “grandifica” Dio, non lo considera meschino, piccolo, come un idolo, ma quello che è realmente (non fa Dio a sua immagine, ma lo vede come proprio modello infinito). La motivazione della grandezza è il “guardare giù”, non chiudersi in se stesso, ma aprirsi ai “piccoli”. Maria è piccola, cioè umile, perché, non essendo piena di sé, può riempirsi dell’amore di Dio, e della Sua Parola, che rende beati. Nella prima parte del Magnificat ci sono 7 verbi che riguardano le azioni di Dio, di Maria e dell’umanità; nella seconda parte ci sono altri 7 verbi, che riguardano solo le azioni di Dio sull’umanità. La parola centrale è “misericordia”, amore viscerale di Dio per l’uomo. L’opposto è il “disperdere gli orgogliosi”, che sono amati, in quanto messi in condizione di convertirsi; disperdendoli, li vuole rendere umili, cioè capaci di accoglienza.  “Abbatte i potenti” perché chi si innalza si mette sopra gli altri, non a servizio del prossimo; invece Lui vuole i piccoli, perché sono pronti all’amore. Riempie la fame di bontà, di amore, di relazione, mentre non vuole i ricchi che non cercano quelle cose, ma solo se stessi. Maria rimane nei tre mesi che mancano al parto, per servire come la preghiera ha detto che Dio desidera. E rimanendo vede l’attuazione della promessa a Zaccaria.

57-66:  Si racconta poi la nascita di Giovanni, vista con lo sguardo di Elisabetta, ed il fatto del nome che gli impongono.  Il Vangelo di Luca inizia con l’annuncio di due nascite; ogni uomo è chiamato a portare a Dio tutto il creato, e lo fa trasmettendo la vita, ma con un amore particolare tra l’uomo e la donna.  La nascita dell’uomo così è la manifestazione dell’amore di Dio. Questa nascita non è per caso, ma è il compimento di un progetto di Dio (come ogni nascita). Diventando padre\madre si capisce meglio Dio come Padre, pronto ad amare e perdonare come fa Lui. Giovanni è presentato in tutti i Vangeli come prototipo dell’uomo, oggetto di promessa da parte di Dio. Il nome è importante, perché è la base della relazione umana. Il nome è ereditato dai genitori: per Giovanni invece è dono di Dio. Il nome che ci dà Dio è quello vero, perché Lui è il vero Padre. Il padre dà il nome (Per Giovanni lo da la madre perché il padre è muto) perché lo fa libero, figlio di Dio. Giovanni significa “Grazia, dono di Dio”. Zaccaria è muto perché non crede alla promessa: solo chi ascolta la Parola di Dio ha qualcosa da dire. Ma scrive che il nome è quello promesso da Dio: per questo ora riacquista la parola, perché solo ora ha qualcosa da dire. E lo dice nella preghiera del Benedictus.

67-80: il Benedictus è la terza preghiera, dopo l’Ave Maria e il Magnificat. È un canto di Lode, della vita che nasce. È un condensato dell’Antico Testamento e delle sue promesse, già in vista del Nuovo. Il Benedictis è nelle Lodi mattutine, perché la mattina abbiamo le promesse di Dio; nei Vespri il Magnificat, perché alla sera cantiamo la promessa attuata. Zaccaria profetizza, cioè parla in nome di Dio, guarda la storia con i suoi occhi, vede ciò che c’è, e così può anche vedere il futuro come logica conseguenza. E profetizza benedicendo Dio, che ha donato il figlio; non lo ringrazia però per il dono, ma benedice Dio perché è grande e sa donare. Lo stupore è lo stile della Lode, perché si guarda la grandezza di Dio, senza guardare il dono in quanto tale, se no lo si assolutizza. Il perché della benedizione è la visita di Dio, presentata al passato ed al futuro, perché questa visita è continua. La visita è fatta anche con i profeti, che annunciano la salvezza, che invitano alla conversione. La salvezza è la liberazione dai nemici, dall’avere nemici, dall’avere odio. E lo scopo è quello di gustare la misericordia di Dio, che è più grande dei nostri peccati, e dunque la possibilità di vivere con Lui e come Lui.  Zaccaria non parla di Giovanni, ma vede in lui tutte queste promesse.  Nella seconda parte parla invece di Giovanni, che sarà il profeta dell’Altissimo. Infatti andrà davanti a Lui, nel senso che imparerà la Sua giustizia, quella dell’amore, della misericordia, dell’accoglienza. Sarà poi colui che vive e propone la vera libertà, quella di Dio. Compirà poi le promesse del Padre, presentando il Messia, che arriverà come aurora nel mondo, portando la vera e definitiva luce.

Dopo questa preghiera si parla di Giovanni che cresce, diventa forte nello spirito, e lo fa nel deserto, luogo nel quale Dio forma il Suo popolo.

 

Schema dell’incontro del 15 novembre

APPROFONDIMENTO DEL VANGELO DI LUCA (Cap. 2)

 

1-8: è diviso in tre parti: la nascita, l’annuncio ai pastori, la visita dei pastori. È dunque un fatto storico, annunciato e di cui si fa esperienza (tutto il Vangelo vuole portare all’annuncio e poi all’esperienza personale). Avviene durante un censimento, segno del potere di una persona sul popolo, che lo vuole contare e governare in modo assoluto. Dio si presenta come piccolo, non come il potere umano. La salvezza avviene nella storia, è concreta, anche se è una storia di male, perché Dio entra nella realtà per cambiarla, e lo fa con criteri opposti a quelli del potere, cioè con il servizio ed il dono di se stesso. Il male dell’Imperatore, che vuole opprimere il mondo intero col censimento, è indirizzato al bene di portare Giuseppe e Maria a Betlemme, dove Gesù deve nascere. Giuseppe e Maria obbediscono alla legge umana, con lealtà (un cristiano accoglie tutte le leggi che cercano il bene comune, non quelle contro esso; non combatte le leggi per principio, perché questo lo fanno solo coloro che vogliono il potere per sé). E a Betlemme Maria compie la sua esperienza del dono, partorisce il primogenito, cioè il tutto, lo fascia, perché Dio vuole essere piccolo, aver bisogno di noi. Questa scena è vista dalla parte di Maria, che può tenere Dio, il piccolo ed il servo, nelle sue mani. È nella mangiatoia, luogo dove le bestie mangiano, perché non c’è altro posto per Lui, che vuole essere mangiato dagli uomini.

9-14: Il fatto è importante, ma per Luca è più importante il modo di accedere al fatto da parte della sua terza generazione cristiana. È l’annuncio del fatto, che si sintetizza nella presentazione di Dio in un bambino piccolo, indifeso, bisognoso.  I pastori sono la categoria infima della società dell’epoca: il piccolo si rivela ai piccoli. E lo fa tramite l’angelo, l’annunciatore: tutti abbiamo qualcuno che ci ha trasmesso la Parola, perché da soli cercheremmo in luogo sbagliato, per esempio, cercando il potente, lo cercheremo nei palazzi dei potenti, cercando il Re, lo cercheremmo nei luoghi del potere… e non dove è realmente, in una stalla, come bambino. Nella Bibbia c’è per 365 volte la frase: non temere. Perché Dio, se non è conosciuto, fa paura. Invece Dio propone una buona notizia, non come quelle che può dare l’uomo, che parla solo di sopraffazione. E questa notizia è una grande gioia in se stessa, perché la gioia è lo stile di Dio. E questa gioia è concreta, è “oggi” (presente 7 volte in Luca, perché vuole insegnarci questa concretezza della Parola): chi accoglie concretamente la Parola, fa nascere Cristo in sé. L’annuncio ci fa contemporanei al fatto, perché anche per noi si manifesta “oggi”. E Gesù è presentato come Signore, come Dio e Salvatore: tutte le altre immagini di Dio sono false, parziali. L’unica immagine è il Bambino fasciato e adagiato in una mangiatoia: il Suo modo di presentarsi è il limite accolto, ed è lì che incontra l’uomo, e ci invita ad accoglierci l’un l’altro nei nostri limiti (amare l’altro), e non nella nostra potenza (schiavizzare l’altro). La sintesi di questo concetto è il canto degli Angeli: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli”, perché la Sua gloria è questo Bambino, nel quale si identifica Lui stesso.

15-20: l’annuncio continua con tutto il coro degli angeli, perché tutto il cosmo è incentrato su questo bambino, che ne è il centro. Solo Lucifero non Lo vuole adorare, e ci spinge a non riconoscerlo. La gloria di Dio invece è questa piccolezza, che salva l’uomo e non cerca se stessa. La pace in terra è la comprensione che questa piccolezza diventa modello di comportamento. Dopo l’annuncio c’è la decisione di usare questa parola per metterla in pratica, e questa decisione è libera. I pastori vanno a vedere, per capire se quella Parola è vera, e questo è lo scopo della Parola.  E trovano il Bambino, e scoprono quello che Dio è, il Bambino indifeso, che vuole solo essere amato. È il contrario di tutti gli idoli che ci creiamo, è Dio che si consegna nelle nostre mani. I pastori fanno esperienza del vero Dio, per questo “oggi” è nato per loro il Salvatore. E la conseguenza è che essi stessi diventano “Angeli” perché non possono non raccontare quanto hanno udito e visto. Maria, la prima che ha udito, ora continua a ruminare la Parola, comprendendola meglio, anche se progressivamente. È Madre vera, non perché ha concepito e partorito, ma perché ha ascoltato e vissuto la Parola. I pastori tornano dove erano prima, ma non sono più come prima, perché glorificano Dio, come gli Angeli. Avendo udito e visto, ora possono vivere la Parola. L’esperienza dei pastori è quella della terza generazione cristiana, la nostra esperienza, che parte dalla parola e diventa esperienza personale.

21-38: Gesù entra nel Tempio, come il dominatore (cioè il piccolo, il servo). Intanto c’è la circoncisione, segno di alleanza con Dio. Gesù è l’alleanza definitiva, quella che non si può rompere. Il nome è segno della persona, che esiste perché è chiamata, è relazionata. Il nome significa la persona, Gesù è “Dio salva”, e finalmente Dio può essere chiamato col Suo vero Nome. Nel Vangelo di Luca solo i lebbrosi, il cieco ed il malfattore lo chiamano per nome, perché solo chi deve essere salvato può pronunciare quel nome. Gesù che entra nel Tempio è un’altra realizzazione delle promesse di Dio, perché chi accoglie questo bambino accoglie Dio nella Sua pienezza (la piccolezza è lo stile di Dio, che non appare, ma dona). Offrire il primogenito significa riconoscere Dio come sorgente della vita (gli Ebrei non uccidono il primogenito come facevano altri popoli mediorientali, perché Dio è il Dio della vita, e non della morte). Simeone ed Anna sono il modello di tutta l’umanità che accoglie Gesù. Simeone è guidato dallo Spirito Santo (lo si dice tre volte). Simeone (Dio ha ascoltato) vede la sua attesa appagata. Di lui non si dice l’età, perché è l’umanità di sempre che desidera avere Dio tra le braccia. La sua reazione è di preghiera, la quarta preghiera del Vangelo, che noi usiamo nella Compieta perché è la preghiera della conclusione di tutto. Conclusione però non nel senso umano (fine) ma di scioglimento degli ormeggi per andare verso la vera vita. Questa salvezza che Simeone ha tra le braccia, la proclama luce per tutta l’umanità. Anche se questa piccolezza sarà scandalo e difficoltà per credere. Questa difficoltà la vede anche in Maria, e questa è la spada che le trapassa l’anima.  Anna (grazia di Dio), di cui si dice l’età, 84 anni. Rappresenta tutta l’umanità, vedova perché non ha lo sposo; rappresenta perciò le nozze finali. Ora, dopo tanto tempo di attesa, celebra Dio che è la risposta definitiva all’umanità.

39-52: Questa scena avvenuta a Gerusalemme è lo schema di tutta la vita di Gesù: parte e torna a Nazaret (vita quotidiana); si ferma a Gerusalemme 3 giorni (resurrezione); spiega ed interroga; vive sempre con il Padre. Con Gesù è compiuta la promessa; in Lui incontriamo il Padre. In tre frasette c’è tutta la vita di Gesù fino all’inizio della predicazione: cresce come uomo e dunque come Figlio. Accetta il suo limite umano, e lo vede come luogo della relazione. Il viaggio a Gerusalemme è in mezzo a questa quotidianità. Va a 12 anni, cioè l’anno prima dell’obbligo di partecipare (a 13 anni si è adulti, perché si è considerati in grado di capire la Parola ed i precetti di Dio: bar mizvà). A Gerusalemme Gesù rimane per tre giorni, senza che i genitori lo sappiano: scandalizza i Suoi genitori come i tre giorni prima della resurrezione scandalizzano tutti i discepoli. A Gerusalemme parla, interroga e risponde con intelligenza. I genitori lo cercano (c’è 4 volte questo verbo, perché è fondamentale questo atteggiamento), e Maria Gli chiede perché si è comportato così. La risposta spiega tutta la vita di Gesù, che deve essere sempre unito al Padre, lavorare per Lui (Gesù dice: bisogna che Io sia nelle cose del Padre, perché quella è la volontà del Padre, che per noi diventa l’unica via possibile). Si torna poi a Nazaret, dove continua a crescere; e con Lui cresce Maria nell’ascolto e nella meditazione della Parola.

 

Schema dell’incontro del 29 novembre

APPROFONDIMENTO DEL VANGELO DI LUCA (3,1-18 e 4,14-32)

 

3,1-18:  Il testo inizia con 7 nomi, di coloro che fanno la storia civile. Sono personaggi che si intrecciano per tenere il potere, e proprio in questa storia la Parola di Dio entra e “cade” su Giovanni. Prepara la via per entrare nella Terra Promessa (salvezza), come ha fatto Mosè nell’Esodo. Giovanni vive nel deserto, luogo del silenzio e della povertà, della fedeltà e dell’ascolto; non nel palazzo dei potenti, dove c’è il potere, quello che opprime. Sul Giordano propone un Battesimo (immersione, che fa morire e risorgere, segno della morte spirituale, cioè il superare i limiti, e la resurrezione, cioè l’inizio di una vita diversa). Il peccato fondamentale dell’uomo è non accettarsi some creature (con dei limiti) e non vedere Dio come Padre che sa aiutare. La conversione è sfruttare gli strumenti che abbiamo per raggiungere Dio, cioè farci una strada diritta, senza ostacoli. Dopo aver presentato il bene, denuncia il male (razza di vipere) come i profeti hanno sempre fatto. E dice che la scure è già alla radice: Gesù è la scure che toglie il male (non toglie però il peccatore). C’è la reazione di tre categorie di persone: la folla, i pubblicani, i soldati. Tutti chiedono “che fare?”, domanda tipica dell’uomo che non è programmato dall’istinto, ma è sufficientemente libero per agire. Le risposte sembrano minimaliste: non organizza la rivoluzione sociale, ma mina alla radice il nostro male, insegnando la giustizia di Dio, che non è “dare a ciascuno il suo” ma dare quello che serve ad ognuno. Così afferma che le tasse e l’esercito servono, ma per servire il bene comune, e non per imporre. I beni, il denaro e la forza si devono usare nel modo opposto a quello che l’istinto umano spinge. In questo brano vediamo Luca che si confronta con la storia (ormai nella terza generazione cristiana è importante fare così). Il brano termina con l’affermazione sul Battesimo di Gesù, che sarà quello che dona la vera vita, completata dall’incontro pieno con Dio nello Spirito Santo.

4,14-32:  Questo brano è il preludio della Morte e resurrezione, con in mezzo la sintesi del Suo insegnamento. Gesù è pieno dello Spirito, e la Sua attività principale è insegnare, perché la malattia dell’uomo e soprattutto la menzogna. A Nazaret, cioè nel luogo della quotidianità, Gesù legge e spiega la Parola. Gesù si alza, cioè risorge, per aiutarci a conoscere e capire la Parola (solo Gesù può aprire i sigilli che chiudono la Parola alla nostra comprensione). Il Messia è presentato come colui che parla ai poveri (coloro che hanno solo per dono), come colui che libera gli schiavi (liberazione profonda, non libertarismo nel senso di fare ciò che si vuole), come colui che apre gli occhi per aiutarci a vedere la verità, come colui che offre l’anno di grazia (il tempo per cui la vita è vivibile, perché ci aiuta a vivere da figli e da fratelli). Il brano letto è spiegato così: “Oggi, questa Parola si è attuata”. Dipende dal nostro ascolto; se la ascolto, questa Parola diventa la mia realtà, ed allora si attua nella mia vita.

Questa Parola è scandalo non nel contenuto, ma nel modo: è attuata nella carne di un uomo simile a noi. lo scandalo diventa poi pretesa di prove; non è più attesa, dono ricevuto, ma è il credere di essere creditori. Come Gesù è pieno di Spirito di vita, i Suoi concittadini sono pieni di ira (spirito di morte).  Gesù però passa in mezzo a loro camminando (segno della Resurrezione, che lo porta oltre, perché nulla lo ferma, neppure la morte).  Si ribadisce che parla di sabato (perché la Sua Parola ci porta nel sabato eterno. E questa Parola è piena di forza, perché ci dona la Sua potenza di salvezza.

 

Schema dell’incontro del 13 dicembre

 APPROFONDIMENTO DEL VANGELO DI LUCA (6,17-49)

 

6,17-26:  Gesù viene incontro alla folla, che non può salire sul monte.  E sono tutti i popoli che vanno da Gesù, perché quello che sta per dire è per tutti. Gesù guarisce tutti, dalla malattia fondamentale, che è la menzogna sull’idea di Dio e dell’uomo. E ci guarisce se Lo tocchiamo (cioè se siamo vicini a Lui nelle Sue presenze: Parola – Eucaristia).   La chiesa è fatta per ascoltare questa parola (tutti vanno da Lui per ascoltarlo e dunque essere guariti).  Gesù infatti “diceva” cioè ha detto e continua a dire questa parola: beati i poveri… Non ha voglia di scherzare, dice una verità assoluta: si congratula con i poveri (pitocchi, cioè che non hanno nulla, anche con sofferenza).  Dio è povero perché dona tutto, fino a donare se stesso.  Ogni relazione vera è dono, e non sopraffazione, dunque rende “poveri”. Chi è affamato è beato, perché cerca di sfamarsi (mentre chi è sazio tende ad affamare, e dunque fa il vero male, perciò non può essere beato). Il senso della storia è condividere, non affamare, non far piangere.  Chi fa il bene è odiato (non temuto, come il potente). Ma se siamo odiati, dobbiamo gioire, perché ci comportiamo come Gesù stesso.

Gesù conseguentemente si dispiace per i ricchi, per chi è sazio… perché hanno sbagliato mira nella vita.  Ci invita a cercare il vero spirito che ci guida, e trovare la verità del senso della vita.

 

6,27-49: dopo le beatitudini, ci sono le indicazioni per la vita concreta, che insegnano chi è l’uomo realmente (sono anche note autobiografiche della vita di Gesù). Questo brano è la rivoluzione della vita dell’uomo. Inizia con un “ma”, perché mette queste proposte in relazioni con le beatitudini. Insegna all’inizio ad amare il nemico, perché il cuore di tutti i rapporti è nell’accettazione di ogni persona, come Dio è Padre di tutti. L’esperienza fondamentale del cristianesimo è amare per primo, non perché l’altro mi ama, ma perché io voglio iniziare l’amore, liberando il mio cuore dal male. L’amore si manifesta del “dire bene” dell’altro, sia al prossimo (evitare calunnie, mormorazioni, pettegolezzo), sia a Dio (pregare per il nemico). E poi si manifesta anche a livello fisico, e per vincere questo male bisogna bloccarlo e non continuarlo (non vendetta). Non metto alla base i miei diritti, ma quello dell’altro, proprio per essere discepolo, e non pagano o peccatore. Se non amo, non ho “grazia” (non “merito”, perché il merito è mio, la grazia è Sua; ma l’amore è gratuito, è dono). Al termine c’è la motivazione positiva: essere liberi dal male perché l’amore riempie la nostra vita. Ed il motivo è guardare Dio che è misericordioso (“usabile” cioè a servizio) verso i “disgraziati”, quelli che non hanno grazia. Dunque anche noi siamo chiamati ad amare i “disgraziati”.

Il versetto 36 è il centro del Vangelo, e tutto il Vangelo è una variazione su questo tema. È impostato come i versetti dell’Antico Testamento che parlano di santità. Ma la santità dell’Antico Testamento è “diversità”, in Luca invece è “misericordia” (non misericordioso ma anche giudice, ma anche giusto…).  Il termine significa “uterino”, perciò il testo significa “diventa materno come Dio è materno”. Gesù ci invita non ad “essere”, ma a “diventare” misericordia, perché per noi è un cammino. Tutto il Vangelo di Luca non è un cammino moralistico, né un’ascesi… è solo diventare come Dio. Seguono poi degli imperativi, che servono per insegnare l’immagine dell’uomo: smettere di giudicare, per essere persone che accolgono (chi giudica non è come Gesù, perché Lui giudica sulla croce, morendo per l’uomo); smettere di condannare (come logica conseguenza); saper assolvere (oltre al perdono, perché lo libero dalle sue colpe, che non ricordo, non ribadisco); saper dare tutto ai fratelli. A questo verbo non c’è complemento oggetto, perché significa dare tutto me stesso. I cattivi maestri sono quelli che si credono perfetti e giudicano senza misericordia, e Gesù li stimmatizza con questa piccola parabola della trave e della pagliuzza nell’occhio.

Il brano termina con delle metafore: quella dell’albero che porta frutto è simbolo della vita, perché prende la terra e la tramuta in vita, ed è simbolo dell’uomo, perché si protende verso l’alto, e perché, con il ciclo delle stagioni, fa capire come l’uomo tende comunque alla vita. L’albero fa i propri frutti non con sforzo, ma per natura. L’uomo, guardando il proprio frutto, capisce la propria natura, perché l’origine del bene e del male è il cuore. Quella del discepolo che prega ma non fa la volontà di Dio, ci aiuta a capire che Lui vuole il cuore, e non le parole. E infine la metafora della casa costruita sulla roccia o sulla sabbia, ci insegna quale è la nostra casa, la Trinità, perché uno vive dove è amato. La casa da costruire sono le Parole di Gesù, che ci insegnano le relazioni. Costruita su questa base, la casa è sicura, nonostante i problemi che possiamo avere nel mantenere le nostre scelte. Senza questa base, invece la nostra vita non è salda, ed è inutile, sprecata.

 

Schema dell’incontro del 10 gennaio

APPROFONDIMENTO DEL VANGELO DI LUCA (Cap. 7 e 8,1-3)

 

7,1-10:  tutti i rapporti sono fondati sulla fede nella parola degli altri. Se non ci si può fidare, la vita è impossibile.  La Parola di Dio è affidabile: questo è il senso di questo brano. La fede ora si apre ai pagani. Lo schiavo di cui si parla rappresenta ogni uomo, che è votato alla morte. È salvato dalla fede di un altro. Il centurione è un piccolo ufficiale (non tanto grande da essere invidiato, non tanto piccolo da essere commiserato). La fede viene dall’ascolto (il centurione ha udito di Gesù). Arriva da Lui non direttamente, ma tramite la mediazione di altri. Il rispetto reciproco tra centurione e Ebrei è segno del mondo ideale nel quale c’è la pace. Gesù si avvia con gli Ebrei verso i pagani (anche questo è un ideale). Il centurione fa un atto di umiltà, e chiede a Gesù di salvare con la Parola, non con la presenza di cui non è degno. Della parola che comanda lui ha esperienza, e chiede a Gesù di utilizzarla. Gesù, in tutto il Vangelo, si meraviglia solo della fede o della non fede, perché questo è l’uso pieno della libertà che ci ha donato. I miracoli non li fa Dio, ma la nostra fede, perché la fede ci fa ascoltare la Parola, che ci salva se l’accogliamo, o ci mette davanti alla nostra responsabilità se non l’accogliamo.

 

7.11-17: qualche volta il miracolo è iniziativa del Signore, per insegnarci qualcosa. Anche la resurrezione dei morti è un segno che fa per insegnarci che la morte non è l’ultima parola. Gesù va verso Nain, è la misericordia che lo muove. Incontra un corteo funebre di un figlio unico (come Gesù che morirà per noi) di una vedova (simbolo di ogni uomo che è vedovo di Dio che non accoglie). Gesù si avvicina alla sofferenza, la vede, si commuove, parla alla mamma, invitandola a non piangere. Sembra un invito impossibile, invece è il segno della vera compassione di Dio, che ci è vicino nei nostri problemi. Con la mano tocca la bara, e il corteo si ferma, perché quando Dio tocca la morte, questa non ha più potere. La Parola salvifica è rivolta al morto, invitato ad alzarsi (segno del fine dio ogni uomo, che non è la morte, ma la vita) ed invita ogni uomo ad alzarsi dalla vera morte, che è l’egoismo. Quando il morto risorge, parla, comunica… perché il segno principale della vita è la parola. Tutti sono presi da timore (stupore) e proclamano Gesù come profeta segno della visita di Dio al Suo popolo.

 

7.18-35: un brano fatto di tre domande, le cui risposte ci danno un riassunto della nostra sequela.  Giovanni è in prigione perché ha denunciato l’adulterio del Re (segno dell’adulterio di tutto il popolo). Ora manda dei discepoli a chiedere a Gesù se è Lui il Messia, perché Giovanni aveva le idee chiare su Gesù, ma idee ebraiche. Sentendo parlare di Lui, vede che si presenta in modo molto diverso, ed allora va in crisi. È come ogni comunità che cerca un Gesù potente. Gesù invece fa vedere che non fa un mondo diverso, ma prende su di sé i problemi del mondo. Dio non vuole distruggere il mondo, ma salvare questo mondo che ha creato. Sa che questo è uno “scandalo”, un inciampo per chi vorrebbe un Dio potente, per questo spiega con chiarezza la Sua missione. Poi è Gesù che interroga su Giovanni: fa delle domande retoriche per stimolare le risposte dell’uditorio. Giovanni è per Gesù colui che ha il vero potere: quello della verità. Le persone che lo hanno seguito riconoscono Dio, quelli invece che lo hanno ascoltato ma senza seguirlo, non comprendono la realtà, pur pensando di sapere tutto e di essere perfetti. La terza domanda riguarda noi, la nostra “generazione”, con il paragone dei bambini che vogliono fare il gioco contrario a quello che gli altri propongono. L’uomo non accoglie l’invito di Giovanni alla conversione quando si fa del male, ma neppure l’invito di Gesù a gioire quando si fa del bene: il discepolo invece segue questi due giochi di Dio, e non si ribella.  Questo brano perciò serve da sintesi di quanto detto finora, per riprendere poi con le idee più chiare.

 

7,36-50:  un fatto della vita di Gesù che spiega il modo di rapportarsi con Dio, avendo la sua vera immagine. Il peggior peccato è quello del giusto che vuole un Dio “giusto”, trattandolo da prostituta (ti pago con la mia bontà, e voglio che tu sia giusto per punire gli altri), ed il Vangelo di Luca, che parla del Dio “uterino”, ci aiuta a liberarci da questa visione. La scena nomina 7 volte i piedi di Gesù, segno del suo spirito di accoglienza. Questa donna è anonima, ma tutti la conoscono, perché è una prostituta famosa della città. Usa il profumo, segno del dono, piange, ma non parla, perché l’amore si dona, non si dice. La scena presenta qualcosa di disdicevole umanamente e religiosamente parlando. Ed il fariseo esprime questo sentimento nei suoi pensieri. Gesù invece gli parla, lo chiama per nome, gli fa capire che Lui è il vero prostituto, perché paga Dio, invece di amarlo. Gli racconta una parabola, che parla del dono ricevuto. E la domanda, “Chi amerà di più?”, cambia la prospettiva che aveva il fariseo, così come ognuno di noi (non “chi è più bravo”?): ama di più chi ha più coscienza del peccato, e ne sa chiedere perdono. Gesù infatti paragona le due relazioni: la donna ha amato, il fariseo ha seguito una formalità. E l’amore è sia causa che conseguenza del perdono. I commensali (farisei come il padrone di casa) non capiscono come Gesù, un uomo, possa dire di perdonare i peccati.

 

8,1-3: Gesù non è solo, perché ci sono con Lui tutti gli apostoli (chiamati in blocco), e poi le donne, nominate invece personalmente. Queste donne, guarite dal male, diventano come Lui, e perciò servono.

 

Schema dell’incontro del 24 gennaio

 APPROFONDIMENTO DEL VANGELO DI LUCA (9,51-62 e cap. 10)

 

9,51-62: è il tema del volto, perché Gesù va verso Gerusalemme, ed il testo dice: “indurì il Suo volto verso Gerusalemme”. Tutto il Vangelo di Luca ora vuole rivelare questo volto (chi non l’accoglie, non accoglie il volto del servo, ma vuole quello del dominatore), ed è un invito per noi a testimoniare il vero volto di Cristo.

Si stanno per compiere i giorni nei quali viene levato dal mondo (Croce e Resurrezione). E perciò va con durezza a Gerusalemme: è la durezza della tenerezza, l’unica che Dio conosce. Infatti se uno conosce quel volto, vince il male, lo toglie dalla propria vita e dal mondo. Per andare a Gerusalemme passa attraverso la Samaria, luogo dell’infedeltà, dei lontani. I samaritani rifiutano quel volto che va verso Gerusalemme, cioè verso la morte, il dono di sé, la misericordia… alcuni Apostoli li vogliono annientare, per questo rifiuto (come noi ogni volta che volgiamo schiacciare gli altri perché non seguono Gesù come vorremmo noi). Gesù in questo caso reagisce con forza (li minaccia, stessa parola che si usa negli esorcismi, per mandare via il Demonio), perché Gesù non vuole assolutamente la violenza per rispondere alla violenza.

Seguono tre scene sul seguire Gesù, con le difficoltà messe dalle persone, o da Lui stesso. La prima difficoltà è quella di nascere: le persone astute hanno le loro tane; quelle sprovvedute cercano Dio come tana. L’importante è stare bene, non avere problemi. Per nascere bisogna uscire dalla mamma, uscire dal puro desiderio di stare bene e di risolvere i propri bisogni. Il primo dono perciò è la povertà spirituale, la libertà. La seconda difficoltà chiarisce i tempi della sequela. Il padre entra in relazione libera, attraverso la parola. È affetto libero e distinto (la mamma all’inizio è confusa con la stesa persona). Voler seppellire il padre significa non essere liberi, perché è desiderio di possedere le cose persone (togliere il padre, cioè la regola esteriore, per farci noi stessi regola di noi stessi). Chiede poi di seppellire “prima” il padre: ha delle priorità diverse da quelle di Gesù. La terza difficoltà riguarda il saper guardare avanti, e non al passato come storia da ripetere: è la libertà dal proprio io, perché io non sono il mio passato, ma sono quello che mi propongo di diventare.

10,1-16: Gesù invia perché Lui stesso è inviato, e ci da le condizioni per essere inviati (apostoli). Dopo aver indurito il volto verso Gerusalemme (non come Giacomo e Giovanni che induriscono il volto contro i fratelli), e senza voler avere in mano le cose, le persone, o Dio stesso, ma cercando la povertà vista come libertà; cercando la castità come amore libero verso tutti; cercando l’obbedienza vista come libertà dall’io esagerato, Gesù insegna cosa significa essere apostoli. Gli Apostoli sono chiamati, gli altri sono designati. Il numero 72 ha più significati simbolici: indica anzitutto la totalità, perché, aggiungendo gli Apostoli, sono 7 volte 12: tutti perciò sono amati, chiamati ed inviati. Indica poi ancora l’imperfezione, perché è la metà della perfezione (12 x 12): ci insegna perciò che Dio si serve dell’uomo anche nella sua limitatezza. Li invia a due a due, perché due è inizio della comunità, perché devono testimoniare anzitutto l’amore fraterno. E li manda davanti al Suo Volto (profezia di Malachia), per preparare il giudizio che è la Sua misericordia; li manda infatti da tutti, perché ama e desidera tutti. E li manda perché l’umanità è matura, pronta per la salvezza. Li manda, ma chiede che anzitutto preghino perché oltre a loro ci siano altri operai per portare la salvezza a tutta l’umanità, e perché gli operai stessi si convertano, per essere pronti a presentare il Suo vero messaggio. Li manda come agnelli in mezzo ai lupi, dunque dobbiamo essere mangiati: non si oppone al male col male, ma vince il male con il bene. L’agnello è utile, ed è mite (un milione di agnelli non mangiano un lupo). Le condizioni della missione sono quelle che ci fanno diventare “agnelli”, cioè l’avere nulla. Il testo allora insegna in cosa consiste il nulla (né bastone, cioè il potere; né bisaccia, cioè l’accumulo dei beni, sostituita dalla fiducia; né sandali, segno del libero, invece noi siamo servi, agnelli appunto) perché se mi presento indifeso, non provoco difesa, ma lascio libertà a ciascuno: se mi accoglie, mi accoglie perché è interessato, non perché ha paura.  Aggiunge poi di non salutare nessuno, nel senso di non perdere tempo inutilmente.  Il messaggio si deve portare nella casa (la persona nelle sue relazioni naturali) e nella città (la persona nelle sue relazioni sociali). Il segno della salvezza è il saper accogliere il missionario, perché è un povero da accogliere. E dove c’è questa accoglienza, nasce la comunità della Chiesa, ed in quella casa (la Chiesa) si deve rimanere. In tutte le culture dobbiamo entrare, non portando una cultura nostra (“mangiamo” ciò che ci danno, cioè viviamo da fratelli in ogni  cultura).  Non potendo costringere nessuno, partiamo sapendo che ci possono essere dei rifiuti, cosa che non ci deve scandalizzare né bloccare nella nostra missione. Sulle città che non accolgono, Gesù lascia le Sue condoglianza, perché il male è per loro, non per Lui che è rifiutato.

10,17-24 Frutto della missione è la gioia. Poi ci sono frutti secondari: i demoni sono sottomessi (non sopra di noi, più potenti, ma sotto di noi, perché siamo con Cristo, che è più potente dei demoni; ciò comporta però che il Demonio si ribella, e combatte), si possono calpestare i serpenti (si è tornati allo stato paradisiaco, si è liberi)… e Gesù allora danza di gioia nello Spirito davanti al Padre (immagine Trinitaria dell’amore tra Padre e Figlio). E noi siamo la causa della felicità di Dio, che ci cerca e vuole gioire con noi. Gesù gioisce davanti al Padre, chiamato Abbà, perché questa è la prima parola del bambino che indica relazione di amore. E proprio nella missione come agnelli in mezzo ai lupi, c’è il senso dell’amore e della gioia, perché la gioia è il dono di sé. E proprio ai bambini (cioè all’umanità intera) Dio rivela questa grandezza della gioia. E dopo aver danzato davanti al Padre, parla ai discepoli, e spiega come avviene questa gioia, proprio nel vedere la Sua insieme al Padre. E Luca, che non ha visto Gesù, lo vede nella Parola raccontata, come Lo vediamo noi.

10,25-37 Segue la parabola del Buon Samaritano, che pone le domande fondamentali sull’amore, il tutto con 7 personaggi (Gesù, il maestro della legge, il ferito, il sacerdote, il levita, il Samaritano, l’albergatore).  L’uomo è programmato per la felicità, che non viene donata solo dalle cose materiali (solo l’animale è felice dopo aver mangiato. L’uomo ha bisogno di qualcos’altro). A chi cerca la felicità, Gesù propone anzitutto la legge, ma vista nel suo centro, cioè l’amore, indirizzato a Dio e poi al prossimo. La domanda del Maestro della legge allora è; “ma a me, chi vuole bene?”. E Gesù risponde con questa parabola, nella quale ogni persona deve riconoscersi come l’uomo ferito, che è amato dal Buon Samaritano che è Gesù, e dalla sua comunità rappresentata dall’albergatore invitato a prendersi cura del fratello, sapendo che poi sarà ripagato. La proposta “và, e fa anche tu altrettanto” spinge la persona a capire che deve comprendere che è già stato amato, e dunque può amare in modo pieno anche lui.

10,38-42 Subito dopo si racconta la storia di Marta e Maria, che sono i due modi con cui tutti noi possiamo accogliere Gesù. Il passaggio da Marta a Maria è il passaggio dalla legge al Vangelo. Maria è seduta ai piedi di Gesù, semplicemente per ascoltare, perché noi diventiamo ciò che ascoltiamo. Marta serve, però lo fa come obbligo, come fatica. È la vita religiosa vissuta nell’attivismo per appagare dei propri problemi psicologici, o per farsi vedere… la vita religiosa invece è accoglienza di Gesù nella Sua Parola e nella Sua persona: non sono io che devo dare la vita per Gesù, ma è Gesù che da la Sua vita per me. E se Gesù non fa quello che io desidero, lo rimprovero, perché mi sento non curato. E Gesù rimprovera Marta per aiutarla ad accoglierlo nel modo giusto, nell’amore e non nell’affanno, nell’ascolto e non nel lavoro a modo proprio, nel superamento del proprio io. E ciò vale anche per la comunità, oltre che per i singoli.

 

Schema dell’incontro del 7 febbraio

APPROFONDIMENTO DEL VANGELO DI LUCA (capp. 11 e 12)

  

11,1-4   Gesù prega, come Luca dice spesso: la preghiera non è una cosa da fare, ma è la comunione naturale col Padre, è stare davanti a Dio, essere noi stessi, cioè figli. Se c’è questa preghiera vera, poi tutto diventa preghiera (non mangio continuamente, ma vivo sempre di ciò che ho mangiato). E così gli apostoli Gli chiedono di insegnar loro a pregare, cioè Gli chiedono di dar loro il vero senso della vita.  E Gesù insegna il “Padre”. Luca non dice “nostro”, ma tutta la preghiera è un gioco di parole tra tu – noi: non posso dire “tu” al Padre se prima non so dire il “noi” con la mia vita. Questa preghiera ci fa entrare nel cuore della Trinità (rapporto tra Padre e Figlio). Luca ha una versione più breve di Matteo. Dobbiamo gustare questo nome, che abbiamo il diritto di pronunciare. Un padre ha piacere di sentirsi chiamare così dal figlio, ed un figlio è se stesso se riconosce il proprio padre. Santificare il nome significa riconoscere la santità della persona del Padre, e presentarlo così anche agli altri, per cui la conseguenza logica è che “venga il Tuo Regno”. Al Padre si chiede il pane, con un aggettivo che significa tre cose “soprannaturale”; “di domani”; “quotidiano”. Questo pane ci mette in comunione con tutti gli uomini, che ricevono il dono della vita da Dio. Conseguenza del dono ricevuto, è saper donare a nostra volta, ed il dono più grande è il perdono, donato e ricevuto. Dio mi perdona comunque, ma se io non perdono, non capisco il dono ricevuto, ed è come se Lui non me lo donasse. E questa è la vera tentazione, da cui chiedo al Signore di liberarmi.

11,5-13    Il pane lo si ottiene dando fastidio a Dio: Dio vuole che l’uomo Gli dia fastidio, perché Lui è dono. Frutto della preghiera è perciò dire “Abbà” a Dio. La parabola che segue è spiegazione del Padre Nostro. Io posso andare dall’amico Gesù, nel momento del bisogno (mezzanotte) a chiedere il pane per me e per i fratelli (nell’Eucaristia sperimento l’amore di Gesù che si fa pane). Ci mette in difficoltà chiedendoci di non dargli fastidio. Non è il Suo modo di essere, solo è una prova, perché ci aiuta ad evitare la tentazione del “tutto subito”, oltre che una sensazione umana (Dio che non ascolta). Lui invece ci vuole dare più di quanto noi possiamo desiderare; per questo ci invita a continuare a chiedere, cercare, bussare… Tutta la vita è un gioco di desiderio e di dono: Lui vuole donare, ma vuole anche che il nostro desiderio sia espresso per coinvolgerci nel dono. Ci aiuta poi a capire che il Padre ci ascolta sempre: se ricevo un pane, è perché io non so incontrare il Padre: Lui mi dà sempre il pane, cioè la vita; mi dà lo Spirito che è fonte di vita nuova e vera.

11,14-26   Ci insegna come essere con Gesù: anche noi, che già siamo con Gesù, dobbiamo essere attenti, perché la lotta non è finita, continua per tutta la vita. Punto di partenza è l’esorcismo di un demonio muto (che non parla di cose belle, anche se il Demonio sa sempre proferire menzogne). Chi non è con Gesù, parla con menzogne (lo accusano di essere alleato con il Demonio) o con curiosità (Gli chiedono un segno dal cielo, non la forza di convertirsi). Il dominio di Satana è forte, più dell’uomo, ma meno di Dio; se noi siamo con Dio (Parola, Eucaristia) il Regno di Satana inizia a sgretolarsi. Ma dopo che lo abbiamo vinto, inizia la vera lotta, perché Satana non accetta di essere sconfitto fino alla fine. Il problema perciò è essere con Gesù: se siamo con Lui il Regno di Satana non prenderà mai il sopravvento. Se però mi allontano da Cristo, il pericolo è reale, perché Satana continua a governarmi.

11,27-32  Esempio di come si sta con Lui è Maria, che sa ascoltare e fare la volontà del Padre. La Parola diventata carne in Maria, poi torna Parola nel Vangelo per diventare carne in noi, tramite l’ascolto e tramite l’Eucaristia.  Per capire abbiamo bisogno di segni, che indicano la realtà (non sono la realtà). Per questo il segno aiuta, ma non è fede: la fede è nella realtà. Chi chiede segni perciò non ha ancora fede, chi si serve dei segni migliora la propria fede (il cartello stradale mi aiuta, ma non è la città verso la quale devo andare). Gesù ci ha dato il segno di Giona (Resurrezione), non abbiamo perciò bisogno di altro. I pagani sanno leggere i segni e trovare la realtà, i religiosi invece continuano a fare ricerche sui segni, e non raggiungono la realtà.

11,33-36   Il cristiano è illuminato, nel senso che si converte continuamente alla luce che è Cristo. Questa luce non si nasconde, ma è sempre testimonianza, perché ogni cristiano è responsabile davanti al mondo (non ci si può nascondere, né si può formare un mondo nuovo con le stesse regole del mondo vecchio: violenza, interessi, egoismo…). Il cristiano ha invece un’identità ben chiara, che è la luce delle beatitudini. E questa luce deve essere visibile da quelli che entrano, cioè che sono fuori. L’occhio del cristiano sa vedere il bene e sa portare al bene anche il male; l’occhio cattivo invece vede il male dappertutto, e lo vuole combattere sempre. Gesù ci invita allora ad essere completamente luminosi, in modo che nulla di male ci sia in noi.

11,37-54  Rapporto tra il peccatore che si riconosce tale, e dunque si mette in cammino, ed il giusto che fa resistenza perché già pensa di essere arrivato. Il cristianesimo non ci insegna la via per la salvezza, ma che la salvezza già c’è nella croce di Gesù. Il fariseo si sente giusto, perché osserva tutte le leggi. Condanna Gesù che non si lava le mani come chiede la legge. Questa legge non è sbagliata, ma è vista come abitudine, e perciò non l’accetta. E Gesù spiega la contrapposizione tra interno pieno di male ed esterno perfetto. A Lui interessa solo l’interno, e l’esterno tanto quanto è sulla stessa lunghezza d’onda. Per questo Gesù dice “ahimè” che non è minaccia, ma è dispiacere per la persona cui parla. Ed il dispiacere parte dal vedere che queste persone non amano, ma mettono se stessi al centro. Come lo fanno i Farisei, lo fanno anche gli Scribi che insegnano le leggi senza cuore.

12,1-21  La gente sta intorno a Gesù “schiacciandosi a vicenda”. Gesù invece ci insegna a guardarci da questo modo di essere: il protagonismo, io che mi faccio avanti senza pensare agli altri (ipocrisia). Se uno si sente amato non ha bisogno di apparire. Dopo l’ipocrisia, il pericolo è la paura della morte, di qualcosa che ci manca. Questa paura detta molte scelte egoistiche. Gesù dice 5 volte in questo brano: non temete, proprio per liberarci da questa paura e dal conseguente egoismo. Per superarla, mi devo accettare come limitato, e dunque bisognoso dell’amore di Dio e degli altri. Dio accetta il nostro limite (morte) e tramite questo ci salva. Accettando Gesù ed il Suo Spirito, cioè la verità di Gesù, siamo salvi; invece non accettando questo Spirito (presunzione di essere salvi da soli) siamo falliti. Altro pericolo è la cupidigia, il volere sempre di più. I beni garantiscono la vita, ma possono portare alla morte se sono bramati. Gesù lo spiega con una parabola: l’uomo ricco si chiede “che farò?” e decide di fare un atto di egoismo, e non di condivisione. Per questa la sua vita è sprecata. Solo arricchendo davanti a Dio costruisce la vita propria e degli altri.

12,22-34  Gesù da per scontato che noi ci angustiamo, e ci invita a smettere di farlo. La maggior parte delle nostre energie sono utilizzate per “pre-occuparci”. Ai discepoli dice di “non angustiarsi”: la parola greca ha la stessa radice di “morte”, perché l’uomo ha sempre paura della morte, e si affanna prevedendola. Per superare questo l’uomo cerca di apparire, per sembrare quello che non è. Gesù ci chiama ad essere noi stessi, accettarci come siamo, accettare le relazioni fraterne, e dunque essere sereni. Alla fine, usa un appellativo per i Suoi discepoli “uomini di poca fede”, che li definisce bene, come definisce bene anche tutti noi. 

12,34-48  Il testo ci parla dei due modi di attendere: lo sposo o il ladro, lo sposo che arriva o lo sposo che tarda. Noi siamo chiamati a vivere non “la fine del mondo” ma “il fine del mondo”, in modo nuovo, nel momento presente, alla luce dell’Eucaristia. Intanto viviamo il presente nel servizio e non nell’egoismo. Ed attendiamo lo Sposo per vivere in unione con Lui, che bussa alla nostra porta. Purché si faccia “vigilando”, perché l’importante è il presente, non il futuro o il passato. E si fa come “amministratori” e non “padroni” della nostra vita e dei nostri beni, capaci perciò di condividere e non di possedere egoisticamente. L’egoismo mi porta a vivere la mia vita stordendomi e schiacciando gli altri: questa vita è sprecata.

12,49-59  Invito di Gesù a discernere il bene dal male, ed i rapporti umani (in famiglia, in società, quando ci sono conflitti, con la natura). Gesù ci vuole salvare nel fuoco dello Spirito, e lo fa attraverso l’acqua del Battesimo. Per trovare lo Spirito serve il discernimento. Il primo discernimento riguarda i rapporti familiari: Gesù ci guarisce il falso rapporto col Padre, e dunque con i fratelli, e questo anzitutto nella famiglia. Per avere discernimento bisogna saper leggere il “kairòs”, cioè il tempo opportuno, che è quello attuale, perché ogni momento è favorevole per incontrare Cristo, per vivere la giustizia che è cercare l’accordo e la pace, non vedendo il fratello come antagonista, ma come persona da accontentare. 

 

Schema dell’incontro del 21 febbraio

APPROFONDIMENTO DEL VANGELO DI LUCA (capp. 13 e 14)

 

13,1-5  Gesù affronta le situazione di conflitto, ed insegna che l’unica soluzione è la fraternità, e non la violenza e l’egoismo. C’è un fatto di cronaca, una ribellione dei Galilei contro i Romani. Chiedono a Gesù: tu con chi sei? C’è in tutte le culture il mito del potente che comanda. Nella Bibbia c’è lo stesso mito (Caino e Abele), ma la Bibbia insegna che la violenza è male.  I Galilei si oppongono alla violenza, ma con le stesse armi. E Gesù aiuta a capire che non bisogna chiedersi “chi ha ragione?” ma “cosa ci insegna questo fatto?”; e l’insegnamento è che non possiamo usare la stessa logica dei peccatori, se no siamo peccatori anche noi.

Parla poi del rapporto con la natura, quando la torre cade ed uccide degli innocenti. Gesù insegna che tutti siamo mortali, il male non è la morte, ma il modo come noi la vediamo. La possiamo vedere perciò come passaggio ad una tappa superiore della vita, e la nostra vita acquista un significato migliore.

13,6-9  Nasce poi la domanda: se Gesù è il Messia, perché il male continua ancora? Dio, davanti al male, non usa la nostra soluzione (distruggere l’uomo), ma usa la misericordia. Tutta la Bibbia è la storia di Dio che ama l’uomo, e l’uomo che sfugge al Suo amore. È il dramma di Dio. Dio dice che da tre anni (i tre anni della missione di Gesù nel mondo) cerca frutto, ma l’uomo non lo ha portato: per cosa deve rimanere sulla terra? Per superare il Suo dramma, non può togliere la libertà all’uomo (non sarebbe più uomo) non lo può distruggere (non sarebbe più Dio-Padre). Ecco allora la Sua risposta: lasciarlo ancora per quest’anno (l’anno della vita, della misericordia divina), in modo che ci siano tutte le possibilità di salvarsi.

13,10-17  segno di questa pazienza di Dio è il fatto che ora viene raccontato: la liberazione di una donna piegata, nel giorno di sabato, giorno della libertà di Dio. Il capo della sinagoga non è d’accordo, perché lui è ancora legato ad una visione materialistica della legge, e non all’amore, e perciò non trova la libertà.

13,17-21 Il Regno dei cieli è paragonato a due realtà che indicano piccolezza e nascondimento: indicano lo stile di Dio. I verbi sono al passato perché parla di cose già avvenute. In genere il Re è il potente, e lo si vede come immagine di Dio. Dio invece da Gesù è presentato come il debole, colui che libera dalla falsa idea di Dio e dell’uomo. Per spiegare questo Gesù usa delle parabole, dei segni per essere più semplice. Il primo segno è il seme, il più piccolo (la senape), perché Dio vuole i più piccoli. Il seme esprime la sua forza solo morendo: nessun’altra creatura ha la forza di riprodursi, ma il seme, per farlo, deve morire. Il secondo segno è il lievito, farina andata a male: ma questa “maledizione” rende migliore il cibo. Gesù solo quando sarà “nascosto” renderà salva l’umanità.

13,22-30  Gesù spiega la salvezza, porta stretta per chi si crede salvo, e larga per chi viene da lontano. Si può salvare solo chi si ritiene perduto, non chi si ritiene bravo. La salvezza parte dalla misericordia di Gesù, che cammina verso Gerusalemme per donarsi a noi. Noi vogliamo essere salvati dalla cose materiali che non ci piacciono: tante tecniche cercano di risolvere questi problemi (medicina, politica…), Gesù insegna i mezzi per arrivare alla salvezza vera, quella che dà il senso completo alla vita, perché questa vita è già la vita eterna, e deve essere vissuta bene. Intanto dice che bisogna lottare per entrare da questa porta stretta, lottare non contro gli altri, ma contro se stessi, accogliendo l’amore di Gesù per noi che ci salva. La porta dunque è Gesù stesso, che ci apre la possibilità di raggiungere il Padre. Per attraversare questa porta bisogna accogliere la Sua misericordia: chi non la accetta, ma vive l’orgoglio e l’egoismo, non sarà accolto, perché non ha le condizioni. Chi viene da lontano (i peccatori che si riconoscono tali) possono invece entrare, perché accettano la misericordia, cioè la porta stessa.

13,31-35  Qui Gesù si presenta come chioccia, che non è una gallina paurosa, ma una mamma coraggiosa nel difendere i pulcini. Il contesto è ancora il lievito dei Farisei (vedono solo la legge) e di Erode (colui che mette paura per la sua forza). Erode dice di volerlo uccidere, per spaventarlo e mandarlo via, cioè nella zona di Pilato (poiché sono nemici, lui vuole mandargli la gatta da pelare). Gesù gli risponde chiamandolo “volpe” (cioè un animale debole, immondo perché succhia il sangue delle galline, notturno…) e rassicurandolo: Lui non vuole il potere né dare fastidio, ma portare il dono di Dio che dona la vita per gli altri; perché Lui non vuole contrapporsi, ma donarsi. E questo lo fa ancora per tre giorni (cioè fino alla resurrezione). Gesù va a Gerusalemme non perché gli altri glielo chiedono, ma perché “bisogna”, è nella natura delle cose che Lui muoia dove devono morire i profeti. E lì dimostra il Suo amore, non la Sua condanna per il fatto che lo uccidono. Piange per il male che capita agli altri, non per quello che capita a Lui.

14,1-6  E’ l’ultimo sabato ricordato nel Vangelo di Luca, prima del sepolcro. In questa scena Gesù insegna che vuole tutti i figli salvi (se la porta è stretta, come è possibile? Tutto il Vangelo da ora fino al cap. 17 insegna ciò). Gesù entra nella casa di un fariseo, per portare la festa del sabato, cioè la presenza di Dio, anche in questa casa del vero peccatore (colui che non vuole convertirsi) e lo tutti lo osservano per vedere se si comporta secondo la legge. E Gesù insegna non che io devo fare qualcosa per Dio (comprerei l’amore, cioè userei Dio come prostituta), ma devo accogliere l’amore che già mi è stato donato (Lui ha fatto e fa tanto per me). La vera conversione è questa. Si presenta un idropico, uno che ha tanto bisogno di acqua,m ma che l’acqua che beve lo gonfia, e non lo disseta; è lo specchio del giusto, che si riempie di buone opere (osserva la legge), ma che non cresce nell’amore.

14,7-14  Continua una scena durante un pasto. Si parla dell’apparenza, perché l’uomo si sente quello che appare. L’uomo vuole avere di più, Dio invece ha di più in un altro senso: nel dono. Se l’uomo vuole essere il primo, è sempre in lotta, perché ognuno vuole essere il primo. Per Gesù il primo è il posto di chi fa il male, fa soffrire gli altri. Il mio posto deve essere l’ultimo, perché se valgo amo, e se amo metto l’altro al primo posto; se voglio il posto più importante scelgo quello di Dio, che è appunto l’ultimo. È una questione di stile: quello di Dio o quello del mondo. Ecco perché le persone considerate le ultime dal mondo, sono le privilegiate da Dio. Per la chiesa la scelta dei poveri non è ideologica, ma è teologica: i poveri sono Dio.

14,15-24  Ancora una scena durante un pasto, anzi, con una beatitudine espressa da un commensale: beato chi mangia il pane nel Regno di Dio; e Gesù approfitta per spiegare come avviene il banchetto nel Regno. Intanto ci assicura che tutti siamo invitati, perché amici intimi di Dio. L’invito non obbliga ad accettare, e Gesù ci insegna che molti non accolgono l’invito, anche per motivi seri, non superficiali. Ma davanti a Dio ci sono motivi personali così importanti che valgono più di Lui? Per Gesù no, tanto che questi invitati non sono più richiamati, e ne cerca altri, quelli che sembrano incapaci di essere invitati: anche questi dunque sono amati e desiderati. Dio insegue l’uomo, gli vuole offrire il proprio dono, non vuole persone che si credono in diritto di essere invitati. La chiesa deve continuare questo invito, anzi, deve insistere perché tutti entrino.

14,25-35  Insegna le condizioni per essere discepoli: alla base è quella di prendere cosciente di non poter essere discepoli con i nostri meriti, ma solo per amore gratuito. Infatti accoglie “tutti i peccatori e pubblicani” che vanno da Lui. Chiede di amare Lui più di ogni altra cosa, anche quelle buone (come ha spiegato nella parabola precedente). Chiede poi di prendere la propria croce ogni giorno: soprattutto quella di rinunciare al proprio egoismo, amando come Lui ama. L’uomo vorrebbe costruire la sua vita nel modo migliore, ma non sempre ne ha le forze. Gesù invita allora a pensarci bene, per trovare le forze per farlo: la forza che solo Lui può dare. Aggiunge poi ancora la capacità di lasciare tutto.  Nessuno infatti da solo di essere realmente discepolo.

 

Schema dell’incontro del 6 marzo

APPROFONDIMENTO DEL VANGELO DI LUCA (cap. 15–16,1-15)

 

1-10  Le tre parabole di questo capitolo , cuore del Vangelo di Luca, completano quanto detto precedentemente, facendo capire che tutti i peccatori si avvicinano per ascoltarlo: solo loro possono ascoltare perché sono pronti, hanno l’umiltà di sentirsi accolti. Gesù racconta queste parabole per i giusti: a loro si rivolge perché capiscano ed anche essi possano partecipare alla mensa. Dio fa una cosa assurda, va in cerca della pecora smarrita, perché per Lui ogni figlio vale infinitamente, tanto da lasciare tutto per lui. Questa pecora, ritrovata, entra in casa con Lui: le altre sono fuori! Una parola ripetuta è “essere con”: il pastore vuole essere con la pecora, per questo la cerca, così come il Padre vorrà essere con il figlio, e fa notare a quello maggiore che è stato sempre “con lui”, dunque non è schiavo, ma figlio. Altre parole chiave sono “festa” e “gioia”, quelle che Dio fa ogni volta che ritrova un figlio, perché non ha figli da spiegare. Si paragona poi ad una donna: Dio è madre, ed ama come una mamma. Per un figlio mette a soqquadro il mondo intero, come questa donna mette a soqquadro la casa per ritrovare l’unica moneta persa. Ritorna la gioia e la festa conclusiva che scoppia quando si ritrova la moneta.

11-32  In questa parabola si nomina 12 volte padre: lo chiamano così tutti eccetto il figlio maggiore. I figli hanno la loro strategia: quella della libertà o quella del dovere per avere i beni del padre. Il padre invece ha la strategia dell’accoglienza e dell’amore. I due figli rappresentano tutta l’umanità: quelli che peccano e quelli che si credono giusti. Il padre dona tutto ai figli, perché il padre è colui che dona vita e libertà. Il figlio minore ha una visione sbagliata del padre: è lui che dona la libertà, che non si trova invece andando lontano da lui. Infatti lontano da lui trova solo il vuoto e la schiavitù. Solo a questo punto riscopre se stesso come figlio, decide perciò di tornare; ma lo fa ancora in modo sbagliato: continua a vedersi come schiavo e non come figlio in modo pieno. Il padre lo accoglie commuovendosi, accogliendo, baciando, donando senza rimproveri: questo padre agisce da madre. Il padre infatti vuole solo che il suo amore sia accolto in modo pieno, senza essere meritato. La festa che il padre fa, è segno di questo amore accogliente. Anche il figlio maggiore ha una visione errata del padre: è legato al dovere, dunque è nei campi a lavorare. Quando giunge a casa non capisce la festa, perché non immagina un padre che fa festa, lo immagina legato al dovere del lavoro. Quando sa che la festa è per il fratello tornato, si arrabbia, perché non può capire come il padre possa gioire per uno che non ha fatto il suo dovere. Conseguenza: non vuole entrare nella casa (è la storia di ogni giusto, che non vuole entrare nella casa di Dio perché non accetta che i non giusti siano accolti). Il padre esce per andargli incontro (a tutti va incontro il padre), ed egli spiega le sue idee: sono stato schiavo, ma tu non mi hai ripagato. L’errore è vedere il padre come padrone e non come padre. La soluzione sarebbe fare la festa insieme, accogliendo il padre come padre e il fratello come fratello.  La spiegazione è “bisognava” far festa (il bisogno di Dio è solo la croce, il dono di sé, la salvezza dell’uomo, la festa per i peccatori accolti)

 

16,1-15  Continua lo stesso discorso, di un padre (in questo caso “padrone”) particolare, che elogia l’amministratore che pensa a se stesso, ma in modo bello, perché non accumula più, ma dà via i beni, che sono del padrone, ma sono dati a lui in amministrazione.  È l’insegnamento di Gesù sull’uso dei beni terreni. L’amministratore infatti si chiede: che farò per evitare il disastro nella mia vita? Il “che farò?” non è puramente operativo, ma è il senso della vita. La domanda che ciascuno deve farsi è “qual è allora il senso della mia vita, se questi beni non sono eterni?” e la risposta aiuta a vivere concretamente bene la propria vita. La risposta di Gesù è: dona, anche se i beni non sono tuoi, ma di Dio, hai possibilità di donarli, perché ne sei amministratore.

 

Schema dell’incontro del 20 marzo

APPROFONDIMENTO DEL VANGELO DI LUCA (particolarità di Luca nei capp. 16 - 21)

  

16,19-31   In questa vita vediamo il mondo al contrario (il ricco sta sopra, il povero sotto), mentre la realtà la vedremo nell’al di là. Questa parabola ci rivela la realtà della storia, del senso della nostra vita e di quella di Gesù. Il ricco si misura dall’apparenza (vestiva di porpora e bisso), il povero invece ha un nome (Lazzaro = Dio aiuta). Alla fine il povero è “nel seno di Abramo”, cioè nella vita, mentre il ricco è nella realtà che ha sempre amato, cioè nella terra. La salvezza è nell’uso buono dei mezzi, non nell’egoismo. Chi non ama, non vive, e non vivrà bene nell’al di là: i beni non salvano, se non sono condivisi. La Parola di Dio ci indica questa strada, e solo chi la segue è salvo. Neppure un miracolo serve, ma solo la fede in questa Parola e la decisione di seguirla.

18,1-14  Perché venga il Regno di Dio dobbiamo vivere la Parola di Dio. Il male c’è, anche nei discepoli. Il problema è capire il male e impegnarsi a superarlo; conseguenza sarà il servizio e la gratuità, in modo che il bene aumenti. Tutti denunciano gli scandali, ma denunciando non si fa il bene, ma si chiede altro male nella punizione: compito dei discepoli invece è superare il male in sé, e testimoniare che il male si supera negli altri con la misericordia e il perdono. La correzione fraterna, se è ricerca vera del bene dell’altro, è aiuto, è misericordia, è dunque strada al perdono. La fede aumentata, che chiedono gli Apostoli, significa credere nell’amore pieno in Dio. La parabola che segue insegna questo: Gesù non si fa servire, ma serve, e diventa il nostro modello: servire in gratuità, uscendo dalla mentalità contrattuale con Dio, e da quella di ansia di prestazione (discutere su chi è il migliore). C’è poi ancora un’altra parabola, che completa il discorso aiutando chi confida in se stesso a trovare la vera umiltà e la vera fiducia in Dio, perché chi si crede giusto annulla l’altro (lo “nientifica” è il significato esatto del verbo in greco). Le due persone che salgono al Tempio ci fanno capire che si possono fare azioni buone in sé, ma in modo malvagio. Chi si sente giusto tratta Dio da prostituta, perché vuole pagare i doni di Dio. Chi invece guarda se stesso e si conosce, capisce di essere “il” peccatore, e dunque non giudica, ma si mette davanti a Dio come Padre misericordioso, che dona gratuitamente.

19,1-10  Uno che desidera vedere Gesù è il modello del vero discepolo, ed il cammino di Gesù verso di lui è la sintesi di tutto il Vangelo. Gesù entra in Gerico, la città inespugnabile, come vincitore. E qui vince il male alla radice. Zaccheo è immondo (pubblicano), ma cerca di vedere Gesù (di capire chi è), anche se non può (praticamente perché è piccolo di statura, spiritualmente perché è bloccato dal suo egoismo). È Gesù che si avvicina a lui, che alza gli occhi per vedere chi lo vuole vedere, per andare da lui, che vuole incontrarlo per capirlo e conoscerlo: tutto è fatto in fretta, perché Gesù ci vuole salvare “adesso”. Lo chiama per nome (pochi sono chiamati per nome, e sempre peccatori per essere incitati a migliorare), e gli assicura che “oggi” è arrivata la sua salvezza, che si manifesta nella conversione concreta dal suo peccato di egoismo.

19,11-27   Una metafora di Gesù che se ne va e lascia ai Suoi discepoli i Suoi beni (l’umanità), e vuole che li sfruttino bene. E secondo l’impegno di ciascuno, ci sono frutti diversi. La parabola parte da un fatto di cronaca (Archelao che è andato a Roma per farsi incoronare, e poi ha scannato i suoi nemici che non lo volevano Re). Nella parabola il Re chiama 10 servi (la totalità) e dà loro 10 mine (una cifra considerevole) per farle fruttare. Al ritorno, chiede ai servi il resoconto. La nostra vita è un tempo per formarci come figli di Dio, così come i nove mesi di gestazione sono serviti per formarci un corpo. Il capitale si può raddoppiare, perché l’amore si raddoppia se si dona amore. Meno lo si dona, meno frutta.  Se si vive nell’egoismo, non ci sono frutti, e la vita perciò è sprecata, perciò perde anche ciò che ha, mentre chi ama ha sempre di più. La conclusione ci fa vedere Gesù che va verso Gerusalemme, per essere ucciso dai Suoi nemici, non per uccidere i Suoi nemici.

21,34-38  Gesù ci presenta uno stile di vita: non nega il mangiare, il godere, ma insegna a farlo nella condivisione e non nell’egoismo, con gli occhi chiusi. Vigilare significa tenere gli occhi aperti sulla vita, per vedere quello che ci circonda, perché è in questo mondo che viene Gesù, non in un mondo ipotetico, perfetto, che non esiste. In questo mondo Gesù vive il Suo tempo di giorno parlando al popolo, annunciando il Padre, e di notte sta col Padre, per essere sempre pieno di Lui, in sintonia con Lui nel Suo annuncio della Parola.

 

Schema dell’incontro del 17 aprile

APPROFONDIMENTO DEL VANGELO DI LUCA (particolarità di Luca nei capitoli 22 - 24)

  

22,24-38  Il contesto è Giuda che si prepara a tradire, tutti gli Apostoli che pensano al potere… ed a questi Gesù dona se stesso nell’Eucaristia. Luca sta presentando dunque la propria comunità, fatta di peccatori, che però si accosta all’Eucaristia. E Gesù insegna ancora una volta l’umiltà, invitando i Suoi Apostoli ad imitarlo nel Suo dono di sé a tutti (Luca non ricorda la lavanda dei piedi, ma accenna ad essa in questo versetto “Io sono tra voi come colui che serve”).

Anche Pietro deve smontare la sua presunzione, e riconoscersi in Giuda. La salvezza infatti passa attraverso il dono di Gesù, non attraverso la propria bontà ed il proprio impegno. Il fatto che Gesù preannuncia questo rinnegamento, fa capire a Pietro che Gesù già sapeva, eppure lo ha chiamato lo stesso. L’amore non si merita (ricordiamo che se no è prostituzione), ma si riceve in dono. Rinnegando Gesù Pietro non perde la fede, ma scopre di non averla. Dopo il perdono di Gesù ottiene la fede, perché capisce il Suo dono. Poi Gesù spiega cosa devono portare: solo la spada per combattere il male, non per combattere il malvagio, e quando i discepoli non capiscono Gesù taglia corto, invitandoli a smettere il discorso. Gesù infatti si fa solidale con i malfattori (“fu annoverato tra i malfattori”) e non vuole che siano uccisi, ma salvati.

23,6-12  In questo brano c’è il tema della regalità, infatti Gesù è di fronte a Pilato (che rappresenta il dominatore del mondo, che ha il potere della pena capitale) e Erode (piccolo Re locale). Gesù continua a spiegare che il vero Re (capo, dominatore) è colui che serve, ma ora lo fa non soltanto a parole, ma soprattutto col Suo esempio. Gesù è il Re, il vero uomo libero, perché non schiaccia l’altro, ma lo serve e lo ama. Erode rappresenta colui che vuole vedere Gesù non come discepolo, per imparare, ma come curioso, solo per divertirsi. Per questo Gesù non parla con lui, neppure per difendersi quando è preso in giro, considerato un povero scemo; anzi, è Gesù che presenta come potere da burla quello di Erode.

23,26-48  La Via della Croce ha delle figure particolari:

il Cireneo, segno di ogni persona che, anche non volendolo, è chiamato dalla vita a portare la croce degli altri. Anche lui è un poveraccio, e gli tocca portare questa croce che non gli appartiene. Però questa avventura gli permette di essere ricordato per sempre, di essere annoverato con la sua famiglia tra i discepoli di Gesù, e soprattutto di diventare modello per l’umanità;

il popolo che guarda e vuole vedere lo spettacolo. La violenza istituzionalizzata è spettacolo, perché mi fa sentire che il cattivo soccombe ed io, che sono buono, posso vivere meglio;

le donne che piangono, alle quali Gesù insegna il vero senso della vita di fronte alla sofferenza, perché sentono compassione, ma in modo sbagliato: non vuole che si pianga sulla conseguenza (la Sua crocifissione), ma sulle cause (i nostri peccati). Il male non è essere crocifisso, ma crocifiggere;

i due crocifissi con Lui, Suoi compagni di sofferenza. Sono due malfattori, cioè che fanno il male; Gesù è con loro, come loro, perché prende il male del mondo intero. Questi due sono “con Gesù”, dunque discepolo, e con Lui saranno nel Regno quel giorno stesso.

Sulla croce invece ci sono altri insegnamenti, sul perdono e sul senso della salvezza, attraverso le tentazioni che Lo invitano a scendere dalla croce; e poi le vere interpretazioni della salvezza, data dal malfattore, dal cosmo stesso, dal centurione.

Gesù viene intronizzato, perché qui manifesta il vero senso della Sua Regalità, che accoglie l’umanità intera, rappresentata dai malfattori in mezzo ai quali ha il Suo trono; e qui esprime il Suo giudizio all’umanità, quello del perdono, della misericordia: il Suo insegnamento qui ha il Suo culmine nel modello estremo, che sa rispondere al male col bene, fino all’accoglienza del peccatore. Questo dono continua nel dono delle Sue vesti

il senso della salvezza è espresso dalle tre tentazioni: se Dio scendesse dalla croce non ci insegnerebbe il vero senso della vita, ma continuerebbe sul senso dell’egoismo e della paura della morte. Ci libera poi dal falso senso del potere; se scendesse dalla croce non sarebbe potente, ma sarebbe solo arrogante, continuerebbe il potere come l’interpretano i politici, ma non quello insegnato da Dio stesso. Ci libera infine dal senso della paura della morte e della sofferenza, insegnandoci che anche queste sono salvifiche, se vissute con Lui e come Lui. Il Suo amore invece, espresso nella risposta al secondo malfattore, vince la morte, e la vince in modo definitivo, nell’ ”oggi” eterno

il cosmo stesso partecipa a questa salvezza, con il buio a mezzogiorno. Gesù dona definitivamente la propria vita (spira, dona cioè il Suo Spirito) proprio per indicarci questa salvezza certa e completa

il centurione infine è la sintesi della fede della comunità cristiana, che riconosce Gesù come Dio proprio sulla croce e nella morte.

24,13-35  Tutti i miracoli di Gesù sono cose provvisorie (Lazzaro, i lebbrosi, paralitici, ciechi… guariti, sono morti di nuovo). Tutti i miracoli sono segno del vero miracolo: la Resurrezione di Gesù, e quella che riguarderà tutti noi. Il racconto dei discepoli di Emmaus è impostato sulla celebrazione Eucaristica: l’ascolto dell’Antico Testamento, poi del Vangelo, poi l’incontro con Gesù-pane. Quasi tutto il Vangelo di Luca parla di Gesù che va verso Gerusalemme; questi discepoli invece si allontano da Gerusalemme. Gesù, pur camminando verso la croce, aveva comunque speranza, loro invece non hanno più speranza. Proprio a loro Gesù si avvicina, perché è venuto per portare la speranza. Li interroga, per “tirare fuori” il loro problema. E loro lo esprimono, raccontando per bene la Passione del Signore: sanno tutto, ma non sanno la cosa più importante, cioè il senso del tutto alla luce della Resurrezione. Proprio a causa di questa disperazione e di questa incomprensione, non riescono a riconoscerlo. Gesù li aiuta a capire che non hanno testa (non capiscono) e non hanno cuore (non credono, non hanno fiducia). E spiega che Lui “doveva” soffrire e morire, perché questo è il segno dell’amore del Padre per l’uomo. La spiegazione diventa però segno visibile, riconoscibile, dono completo: l’Eucaristia, che è Gesù che resta con noi (comunità cristiana dopo l’Ascensione) per sempre.

24,36-49  Nel presentare le apparizione, garanzia della veridicità della Resurrezione, Luca sottolinea la presenza dei sensi che riconoscono Gesù (si vede, si sente, si tocca, Gesù mangia). Solo quando i sensi sono coinvolti, la fede diventa piena, prima pensano che sia solo un fantasma. Gesù viene e porta la pace, la presenza gioiosa del Padre. E parlando interroga e spiega, si fa toccare per garantire ulteriormente la sua corporeità. Mangia davanti a loro per far vedere ancora meglio la realtà.  Solo a questo punto capiscono e credono. Davanti a questa fede, c’è allora la missione al mondo intero: è Lui risorto che devono testimoniare e raccontare con l’aiuto della potenza del Padre (lo Spirito Santo).

E di questo Spirito Luca continuerà a parlare nella seconda parte del Suo libro (cioè gli Atti degli Apostoli)

 

 

CONFRONTIAMOCI SU...

 

06-ott-2011: INCONTRO CON ENZO PENNETTA - "SCIENZA E FEDE"

 

Il filo conduttore:

Per parlare di scienza e fede è importante uscire dal meccanismo degli “slogan” capendo se e dove ci sono dei pregiudizi. Dobbiamo essere capaci di approfondire con mente libera, chiarendo - per il bene di tutti – i pregiudizi con cui siamo cresciuti.

 

I principali temi trattati:

- la scienza dice il “come” e la fede il “perché”, i magisteri non sono sovrapposti

- la questione non è campata in aria (racconto storico) ma coinvolge la nostra vita di tutti i giorni (dimensione etica)

- da dove partono i pregiudizi: le finzioni, le opere teatrali, …

- il caso Galilei

 

Domande e risposte al relatore:

- scienza, fede e catechismo

- la fatica del credere, dell’avere fede

 

 

22-nov-2011: INCONTRO CON ANDREA PIERSANTI - "INFORMAZIONE E DISINFORMAZIONE"

 

Di cosa si è parlato

Informazione per immagini in movimento

 

Premesse:

non si parla di attualità, il sistema è complesso, attraverso le immagini viene comunicato un insieme di valori

 

Idea di fondo:

In un mondo dove tutto sembra artefatto, il trucco per far sembrare le cose “vere” è quello di mostrare delle cose “sporche”, sgrammaticate, disorganizzate in modo che lo spettatore pensi che “ciò che è rotto deve essere vero”

 

Come fare per avere più consapevolezza:

Essere sempre”scettici”

Chiedersi sempre perché il regista ha voluto mettere in quel dato punto la telecamera

Chiedersi il perché delle “sgrammaticature”

 

Domande e risposte al relatore:

L’importanza della figura del giornalista come figura responsabile di una comunicazione consapevole in contrapposizione ai reporter improvvisati

La figura del cameraman, assimilabile per tante cose ai giornalisti

 

Alcuni degli spunti video:

Pubblicità del 2010 della Nike per i Campionati del Mondo di Calcio con Didier Drogba, Wayne Rooney, Cristiano Ronaldo, Fabio Cannavaro e Franck Ribéry

Documentario del 1934: Congresso del Partito Nazional Socialista 1934 – Il trionfo della volontà - regia di Leni Riefenstahl

Pubblicità del 1999: Birra Budweiser – Wazzup

Video elettorale del 2008: Obama  - “Wassup 2008”

Film del 1970: Woodstock - Tre giorni di pace, amore e musica, regia di Michael Wadleigh

 

 

06-dic-2011: INCONTRO COL PROF. D'AGOSTINO - "LA FAMIGLIA CHE CAMBIA"

 

1) LA FAMIGLIA IN TRASFORMAZIONE

La famiglia è una struttura presente in tutte le culture e società - in America la famiglia è intesa come un contratto, in Italia più come una istituzione (ha più inerzia).

La famiglia sta cambiando (non c’è nè crisi e né lo sfascio descritto dai media ma c’è un indubbio cambiamento, una trasformazione). Rispetto agli altri paesi europei la famiglia italiana, pur con bassa natalità, è più stabile.

 

2) LE CAUSE DEL CAMBIAMENTO

La transizione familiare: il passaggio dalla famiglia estesa (patriarcale, tante figure) alla famiglia nucleare; dalla campagna alla città.    

La precarietà economica creata dai bisogni indotti che creano a volte disagio, a volte vera e propria devianza (ottengo ciò di cui ho bisogno anche con mezzi illeciti). Le famiglie sono un target della società dei consumi e vengono bombardate di pubblicità.

Il maggiore contatto con la diversità sociale.

Il nuovo ruolo della donna nella società, da casalinga a lavoratrice.

I pochi servizi per le famiglie in Italia. Purtroppo non ci sono aiuti concreti per le coppie giovani ma solo retorica.

Lo spazio domestico modificato dalle nuove tecnologie, che con internet portano dentro casa la complessità ed i “pericoli” del mondo esterno.

Il clima di incertezza e di precarietà, di decisioni mai definitive.

 

3) LA SITUAZIONE ATTUALE

Le famiglie tendono ad essere famiglie verticali (magari anche con figlio unico) e non orizzontali. I genitori entrano in rapporto simbiotico con i figli e ne prendono le difese da tutto e tutti. La famiglia non ha spesso fiducia nella scuola, luogo invece centrale di socializzazione, di confronto con i pari.

Le famiglie si allungano, i figli non escono di casa e ritardano le proprie responsabilità (in Italia è un fatto più culturale che, come si tende a dire giustificando, per motivi economici).

La famiglia si chiude al proprio interno, sicura delle proprie certezze vede i pericoli solo all’esterno. È il “familismo amorale” di cui parlava Banfield. Il diverso è un nemico, un aggressore.

In famiglia si negozia sulle regole. Si accontentano sempre i bambini (gratificazione istantanea) facendo scomparire il concetto di sacrificio.

La famiglia non gestisce i conflitti. Non sapendo gestire la conflittualità legata alla diversità, i genitori rinunciano a gestire, delegano verso l’esterno. I bambini spesso sono lasciati soli davanti alla tv. Per mediare e ricomporre i conflitti serve un consulente o un sacerdote.  

 

4) LE SOLUZIONI (PER TROVARE SPERANZA IN QUESTO MONDO CHE CAMBIA)

La famiglia è sotto pressione. Si chiede troppo alla famiglia. Il mondo che cambia crea un sovraccarico depressivo sulla famiglia.

La famiglia non è autosufficiente, non può affrontare tutto da sola.

La famiglia ha paura di aprirsi, di condividere.

L’obiettivo è creare una famiglia aperta alle diversità, allo straniero, al dono, alla vita.

Serve una cultura della prevenzione, dello scambio, dell’incontro. Come per la macchina ci allarmiamo al primo rumore strano che sentiamo, così per la famiglia non dobbiamo arrivare sul ciglio del burrone per dire che abbiamo un problema.

Servono scuole di formazione alla maternità ed alla paternità.

Servono aggregazioni, per potersi ritrovare - anche non legati dalla religione - intorno ad obiettivi concreti, a temi che interessano tutti (come i problemi del quartiere). Occorre creare una rete.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Ultimo aggiornamento: 20-02-14